In uno dei suoi ultimi progetti – Mercabot – No Curves si è cimentato in un’esplorazione che dai mestieri nel tempo attraversa il presente del lavoro delle persone e sfida il futuro dei robot, per mostrare alla città il mercato che non vediamo, il mondo nascosto della tradizione, il mondo che, invisibile, ci supporta tutti i giorni con il suo lavoro, e il mondo visibile della società contemporanea. Nelle sue opere questi mondi sono pronti e uniti per accompagnarci nel futuro.
Mi hanno chiesto se avessi voluto intervistare un artista, esponente di punta a livello mondiale della Tape Art, durante l’open day del suo laboratorio all’interno del mercato più grande e vecchio d’Italia. “Certo.” – ho risposto istintivamente e senza pensarci due volte.
Sarò sincera, inizialmente ero molto più attratta e affascinata dal luogo e dal fatto che si potesse entrare e curiosare nel covo di un artista, che da lui.
Nella mia mente nastro adesivo e taglierino sono associati alle pene infinite del trasloco e ai tagli che porto con l’orgoglio di un veterano.
Entrare nel ventre dell’oscuro e misterioso gigante di ferro, cemento e vetro era per me godimento puro. Archeologia industriale assolutamente da visitare prima che lasci spazio ad una nuova struttura più moderna prevista in futuro.
Non sono mai stata al mercato agroalimentare, dove si dice ci sia racchiuso il mondo. Sì, un mondo a parte, con le sue regole, i suoi protagonisti provenienti da ogni parte del globo, i suoi orari e, a quanto pare, ora anche l’arte.
Passate le palpitazioni mi sono concentrata su ciò che distraeva lo sguardo dal grigio contorno, sul colore, le righe di colore che come un tappeto guidavano verso il palco dell’esposizione, la Galleria Ambrosiana, passando davanti alla “tana”.
Lì, non dico che il mio amore per la rudezza del cemento e le strutture industriali sia svanito, ma hanno sicuramente un contendente in più – No Curves.
Viste da lontano le sue opere potrebbero sembrare dei magheggi grafici su Illustrator, ma da vicino – sono dei collage di diverse consistenze, spessori, luci e trasparenze dai quali è difficile staccare gli occhi cercando di osservare e capire ogni singolo dettaglio.
Visitandolo, in due parole, mi verrebbe da descrivere il Mercabot come una galleria contemporanea tematica più il tuo laboratorio creativo all’interno degli spazi precedentemente liberi del mercato ortofrutticolo. So però che il concetto è più elaborato e profondo che arriva a comprendere la riqualificazione del distretto agroalimentare e del quartiere stesso, oltre alla valorizzazione del lavoro delle persone al loro interno. Ce lo spieghi?
Il progetto Mercabot è nato più di un anno fa, ero alla ricerca di un nuovo spazio a Milano e sono stato coinvolto da Sara Baroni in una visita al Mercato Ortofrutticolo e, complice l’architettura industriale, le persone e l’aria di vita vissuta, mi sono innamorato immediatamente del luogo.
Sara stava lavorando sul concetto di “saper fare”, del mondo del lavoro e io sono anni che porto avanti una visione più futuristica delle mie opere, con particolare attenzione ai robot e alle nuove tecnologie e al loro impatto nella società.
Abbiamo messo insieme i diversi concetti tra persone, lavoro, futuro e robot ed è nato Mercabot = Mercato + Robot.
Non si voleva che fosse solo una mostra, bensì un progetto più esteso che esplorasse il mercato giornalmente con tutta la sua attività, quindi era fondamentale aprire il mio atelier negli stessi spazi. L’artista diviene il punto di incontro tra il mondo del mercato e quello dell’arte, guarda caso legato da un’unica striscia di nastro adesivo.
La Sogemi, l’azienda che gestisce i mercati, è stata entusiasta del progetto e ci ha gentilmente supportato e messo a disposizione gli spazi inutilizzati del mercato.
Come coesistono questi due mondi distanti, quello della tape art e quello dei mercati? Come sta andando la convivenza?
Seppure cresciuto da bambino in un ambito lavorativo differente, una falegnameria, ricordo molto bene tutto il mondo che gli gravitava intorno. Un mondo che unisce falegnami, fornitori, operai, muratori etc. C’è una varietà di paesi, regioni e dialetti, una sorta di fratellanza che si respira.
Nel mercato ho ritrovato lo stesso spirito e la stessa umanità. Si è creato un legame speciale. È gente molto pratica, che bada ai risultati e poco alle chiacchiere, si lavora sodo e si è molto schietti nei rapporti, cosa che in una città come Milano si sta perdendo, nonostante la grandissima crescita economica e sociale.
È opera tua l’idea e il design industriale dell’allestimento?
Gli spazi sono stati lasciati cosi com’erano, se non per alcune operazioni di pulitura e adeguamento. Andava rispettato lo spazio storico e architettonico, la mia presenza è quella di un ospite che vuole mettersi a contatto con un ambiente per capirlo, non modificarlo.
L’intero allestimento del design è stato realizzato in collaborazione con Castellani Top Design, nostro partner tecnico fin dal primo giorno. Con i fratelli Castellani, Camillo e Biagio, abbiamo cercato di rispettare l’aspetto industriale dei mercati e della sua iconografia, lavorando su delle strutture espositive e delle sedute di loro creazione che erano perfette per questo ambiente. La scelta del colore finale – arancione.
A proposito dell’arancione – queste cornici, quasi opere d’arte strutturale loro stesse, sono delle creazioni progettate ad hoc?
Lo sono. Abbiamo progettato una una struttura espositiva che mettesse d’accordo arte, design, architettura e la tipica segnaletica di sicurezza dei mercati.
L’arancione ha un suo legame preciso con il mondo della sicurezza e delle lavorazioni industriali e del food e le linee del design di Castellani si fondono perfettamente con l’aspetto lineare delle mie opere di nastro adesivo.
Vedo che siete creativi anche nell’utilizzo del materiale di scarto del mercato.
Sì! Anche questa è stata una parte fondamentale, trovo molto importante riutilizzare i materiali nei luoghi dove la mia arte viene ospitata, non solo è una questione di risparmio e riuso ma anche di rispetto per un luogo con una propria storia.
Gli spazi principali sono due ed entrambi espongono i tuoi lavori. Nel primo – l’atelier, ci sono gli scatti fotografici degli operatori, nel secondo – la passerella, quello forse più personale, vediamo la tua interpretazione delle varie figure del mercato. Potrebbe essere una riflessione presente/futuro?
Sì, l’atelier è uno spazio più intimo e sociale, dove si vuole raccontare una storia del presente, sia l’attività dell’artista che degli operatori del mercato, mentre sulla passerella dove sono esposte le opere realizzate interamente a nastro adesivo c’è rappresentazione iconografica a cavallo tra il passato e il futuro e le loro simbologie.
Hai coinvolto anche un fotografo nel progetto. La scelta dei soggetti per le foto è stata fatta da te o da lui? Come hanno reagito alla trasformazione?
Come prima cosa era necessario avere una documentazione della vita di tutti i giorni del Mercato, quindi ho coinvolto un amico fotografo, Federico Laddaga, che nei diversi mesi ha ritratto i vari personaggi, ambienti, il cibo e le giornate di lavoro al mercato. In seguito abbiamo selezionato alcune foto per realizzare una serie di ritratti degli operatori del mercato. Una sorta di guerrieri e sciamani del futuro. Hanno parecchio apprezzato! Si voleva celebrare il loro lavoro e mettere in risalto la varietà e la ricchezza dell’essere umano.
Buon pastore, Dama mercabot, Pescatore elettrico, Ciclo vitale – già i nomi delle opere innescano la fantasia e si prova a cercare di interpretare questi cyborg del futuro. Più si osserva, avvicinandosi poi allontanandosi, più dettagli e riferimenti simbolici si notano. Potresti decodificare per noi una delle opere?
Una delle opere a cui sono particolarmente affezionato è Lady Brera. Amo definirla come un sogno di mezza estate, anche in onore dell’atmosfera magica della commedia di Shakespeare che porta lo stesso nome, e che ritrovo nell’Orto Botanico di Brera. È anche l’opera meno scontata rispetto alle altre che sono più in linea diretta con i temi del progetto.
La genesi dell’immagine si ispira al dialogo tra l’arte classica, la bellezza dei giardini nascosti di Milano con una visione futuristica della cultura floreale e del saper fare dei mercati; la struttura dell’opera è racchiusa in un triangolo idealizzato per mettere in risalto la posa, il passaggio tra i fiori elettrici/ninfee e lo sguardo frontale.
Devo ammettere che il vero punto di partenza è un curioso aneddoto: stavo bevendo il caffe all’alba nel mercato con un po’ di “amici” quando un vecchio “mercataro” dei fiori, incuriosito dalle mie chiacchiere sul progetto, mi ha raccontato diverse storie su suo padre, che da ragazzino lo portava all’Orto Botanico di Brera ed è lì che è nata la sua passione per questo lavoro. Si pensi che ai tempi l’Orto Botanico era in stato di abbandono.
Quali sono state le tue fonti di ispirazione per la serie di questo progetto?
La concezione del progetto, primariamente legata al mondo del mercato, quindi alle persone, al lavoro, all’umanità che si respira al suo interno, si è successivamente espansa verso richiami che arrivano dal territorio italiano: la natura e i suoi frutti, l’artigianato, fino a toccare temi della cultura pittorica del Rinascimento e del tardo ‘800. A condire il tutto – il tema della robotica, punto di incontro tra l’umanità di ieri, di oggi e di domani.
Se utilizzassimo del luminol sulla superficie dei tuoi pannelli potremmo rilevare tracce di sangue, ti capita di tagliarti?
Sangue e sudore!
Hai già dei progetti post Mercabot?
Quanto a Mercabot, contiamo di portare il progetto in altre città per poter raccontare l’esperienza maturata all’interno dei mercati, cercando di creare nuove connessioni con realtà simili anche a livello internazionale.
Per rimanere connessi ai concetti di futuro e robotica, durante la Milan Design Week appena conclusasi ho realizzato un intervento site specific e un’opera dedicata per BluE Emobility – un progetto che si interessa di nuove forme di mobilità del futuro.
La Ragazza Elettrica è un’opera ispirata alla Dama con l’ermellino di Leonardo da Vinci e mette in relazione creatività, arte, design e le nuove forme di mobilità elettrica nel territorio urbano.
Hai esposto al Museo della Scienza e Tecnologia, hai collaborato con Adidas, Rolling Stone Magazine, Red bull etc. Qual è l’esperienza migliore, quella più entusiasmante, adrenalinica?
Vivo intensamente tutte le esperienze, i progetti e le mostre, cerco di dare sempre il massimo. Sicuramente la mostra al Museo della Scienza e Tecnologia rimane quella a cui sono più affezionato, per diversi mesi sono riuscito ad isolarmi e lavorare con continuità senza distrazioni esterne, come in una sorta di guscio protettivo dove le energie erano concentrate e ben canalizzate. Situazione che oggi trovo difficile ricreare nel vorticare di impegni e progetti da portare a termine ogni mese.
Il tuo lavoro preferito, inteso come opera, quello a cui sei più legato, il più spesso ricordato? Sentimentalmente o perché lo ritieni il meglio riuscito.
Sento che una parte di me e delle mie esperienze di vita sia presente in ogni opera, sarebbe impossibile prediligerne una sopra le altre.
Fai anche lavori su commissione. Succede di rifiutare perché le richieste non ti piacciono? Accade che i committenti non siano soddisfatti delle tue opere finali?
Lavoro principalmente su commissione metà dell’anno. Ci sono essenzialmente due tipi di commissioni, una più commerciale, legata al mondo dei brand e del marketing, quindi fondazioni, enti o musei; l’altra, legata ad una sfera più riservata, ai collezionisti e ai privati.
Nella prima è tutto più semplice, bisogna valutare se quello che viene richiesto è in linea con la tua visione artistica e morale e che non tratti argomenti negativi o offensivi. Nella seconda è molto diverso, si entra in contatto con la dimensione più intima delle persone, sopratutto quando vengono richiesti dei ritratti o delle interpretazioni iconiche delle loro passioni; spesso il committente si sente “parte” dell’opera e delle sua genesi, ci sono delle aspettative che non si possono deludere anche se sono molto severo con i miei committenti. Seleziono con estrema cura a chi dedicare il mio tempo.
C’è una persona con cui vorresti collaborare o insieme alla quale vorresti creare qualcosa?
Sono tanti gli artisti e amici che stimo, e con molti ho già collaborato, citarne uno in particolare sarebbe un’ingiustizia. Posso dire che mi piace molto lavorare con persone che hanno anche una visione opposta alla mia e sperimentare per cercare un punto di incontro e crescita simultanea.
Lavori su fotografie, crei ritratti… mai pensato ad un autoritratto, magari nella versione cyborg?
L’autoritratto è molto “egoico”, una pura rappresentazione del sé. Mi interessa più lavorare sugli altri e sulle storie che raccontano e nascondono, cercando di dare un’emozione in poche linee. O in molte!
Le curve non ti piacciono proprio o in certi campi le accetti e le apprezzi?
Il fatto di usare uno pseudonimo dove compare una negazione, nasce dalla necessità di raccontare un’idea ben definita, di mostrare una visione d’insieme tra tecnica, nastro e geometria, dove la figura umana, quindi le curve di pelle e carne non sono cosi fondamentali quanto il risultato pratico e idealistico.
Le curve sono rassicuranti, la mia tecnica e stile non lo sono.
Vivi nel disordine creativo o sei uno con tutte le scatole dei nastri catalogati?
Catalogo tutti i nastri adesivi in vari box numerati e divisi per colore, con estrema precisione. Ordine, concentrazione e controllo sono una parte fondamentale della realizzazione dell’opera.
Il caos risiede nella mente e le mani poi lo traducono in forma fisica. Il disordine rimane al termine dell’opera e del lavoro.
Credo non ci sia un colore che tu non abbia utilizzato nelle tue opere, ma dovesse esserci – qual è o quale non useresti mai? Indipendentemente dalla tua deformazione professionale, quali sono i tuoi tre colori preferiti?
Il colore è un flusso, è una continuità, non sarebbe possibile escluderne nessuno. Per quanto il nastro non possieda la fluidità dell’olio, lo lavoro con lo stesso spirito, miscelando le geometrie come se fossero senza forma.
Scelgo un colore solo – nero!
Quali sono i tuoi tre materiali tangibili preferiti?
Il legno e il suo calore, la freddezza del metallo e l’umidità profonda delle rocce.
Sei eclettico e incredibilmente erudito. Leggi tanto? Potresti raccomandarci un paio di libri?
Penso semplicemente che ogni essere umano dovrebbe avere una cultura a trecentosessanta gradi. Lettura e visualizzazione, intesa come fruizione delle immagini all’interno di un libro, fumetto, rivista, sono il fondamento per conoscere, imparare e educare la mente.
Ho la fortuna di aver passato diversi anni leggendo fino a un centinaio di libri all’anno, di ogni argomento possibile.
Mi permetto di consigliare tre storie che stravolgono i punti di vista : Lo spirituale nell’arte di Vasilij Kandinskij, Flatlandia: racconto fantastico a più Dimensioni di Edwin A. Abbot e Illusioni: le avventure di un messia riluttante di Richard Bach.
Tra le città in cui sei stato quale consiglieresti di visitare assolutamente?
Milano, perché corre verso il futuro.
Londra, punto di riferimento a livello museale.
Poi due città-fortezza francesi accomunate dall’elemento mare: Saint-Malo e Mont Saint-Michel tra la Bretagna e la Normandia; la prima per il passato piratesco e la passeggiata mozzafiato, la seconda per il senso di immane sacralità che si respira dal balcone nella sua cima più alta di fronte al mare.
Quale è la prima cosa che fai quando sei in un posto (geograficamente) nuovo?
Mangiare e bere. Tutto parte da li.
Il futuro sta arrivando e con lui i robot. Rimane il saper fare delle persone, che ogni notte anima il mercato da decenni, e continuerà a dare senso ad un luogo di lavoro, di sudore e di fatica con il colore, i rumori ed i profumi che solo l’essere umano può produrre.
Credits:
Courtesy No Curves
Photo credits: Federico Laddaga
Anastasia B. Calmotti