L’eclettico dj e produttore danese Kasper Bjørke, in un modo piuttosto unico, racconta una storia introspettiva di inquietudine, guarigione e rinascita attraverso un concept album ambient strumentale e una serie di film che insieme prendono il nome di “The Fifty Eleven Project”.
Il progetto, ambizioso e commovente, è un modo personale e terapeutico di elaborare la diagnosi di tumore, ricevuta nel 2011, qualche settimana prima del suo trentacinquesimo compleanno, la paura della ricaduta e la luce della guarigione.
Nonostante l’impulso di documentare la sua esperienza attraverso la musica, Kasper ha preso la decisione di non iniziare a registrare fino a dopo il suo ultimo esame ospedaliero nel 2016.
La musica segue cinque anni di trattamenti e check-up mentre l’album finale, prodotto dalla leggendaria etichetta discografica tedesca Kompakt, è stato rilasciato nel secondo anniversario dell’ultima visita al reparto di oncologia.
Usando composizioni strumentali lunghe e i titoli come linea guida, sono stati documentati i momenti più bui e quelli più sereni. Dalla scoperta del tumore, all’operazione e frequenti esami ospedalieri; a un fascio di luce e amore emanati da un faro simboleggianti la nascita del figlio – nello stesso ospedale.
In un racconto poetico di undici film e undici composizioni musicali “The Fifty Eleven Project”, attraverso il duello dell’uomo con il cancro, copre lo spettro della vita intera e tratta i temi fondamentali dell’umanità: nascita, amore, paura, morte e rinascita.
Il risultato finale è un arazzo unico fatto di musiche del Kasper Bjørke Quartet e delle immagini intense, penetranti e sconvolgenti del regista e visual artist Justin Tyler Close, che si impegna a riportarci un dialogo audiovisivo non verbale con due forme narrative differenti: da una parte la lotta e l’ansia di un uomo mentre si confronta con la propria mortalità, dall’altra l’impatto del suo genere sul pianeta.
In un racconto poetico di undici film e undici composizioni musicali “The Fifty Eleven Project”, attraverso il duello dell’uomo con il cancro, copre lo spettro della vita intera e tratta i temi fondamentali dell’umanità: nascita, amore, paura, morte e rinascita.
Quasi un documentario che racconta l’odissea del protagonista prima, durante e dopo la sua diagnosi di cancro; dalle tenebre dell’ansia e della paura della ricaduta alla luce curativa dei suoi cari e del puro sollievo di essere guarito, accettando infine la propria mortalità e il proprio destino in seguito alla riconnessione con la natura. C’è una transizione dalla tensione e dall’angoscia a una liberazione divina attraverso la musica e le immagini conturbanti di Close. In un senso più profondo, su un livello surreale e metaforico, il regista traccia anche una sottile metafora dell’uomo come cancro che sta distruggendo la sua unica casa – la terra.
Il progetto è stato presentato per la prima volta come una mostra audiovisiva a Copenaghen nell’ottobre dell’anno scorso.
La seconda tappa della mostra, a febbraio, è stata Milano. Per merito della curatrice Tania Caporaso, che ha fortemente voluto portare da noi la performance della durata di due ore.
Le persone erano visibilmente toccate mentre guardavano i film. Solo loro, schermo e cuffie, senza distrazioni.
Il suono avvolge mentre le immagini trascinano – è un’esperienza che isola dal contesto circostante e spinge all’introspezione. Oscura, ma incoraggiante.
Deve essere questo lo scopo – che le persone si sentano perse, ma non spaventate – placidamente perse. Accettare l’ignoto ed essere pronte a qualsiasi cosa venga dopo. Illuminate. Presenti.
Il suono avvolge mentre le immagini trascinano – è un’esperienza che isola dal contesto circostante e spinge all’introspezione.
Grazie a Tania abbiamo avuto l’occasione di parlare con Kasper del suo progetto, dell’album, della resilienza e della guarigione attraverso l’arte.
L’ambasciatore della scena elettronica danese nel mondo è diretto e onesto. Affabile e per nulla agitato a rivelare la sua storia al primo contatto.
Disarmantemente aperto, ma non si può fare a meno di sentire che stia proteggendo qualcosa.
Come è nata la tua amicizia e partnership con Tania?
Tania mi scrisse per email la prima volta alla fine dell’anno scorso e mi disse che ha amato l’album The Fifty Eleven Project e che voleva portare la mostra a Milano.
Non l’ho mai incontrata finché non è venuta a sentirmi suonare a Zurigo, poche settimane prima dell’inaugurazione a Milano.
Tania sembra molto appassionata di musica e vuole sostenere il progetto condividendo l’esperienza espositiva con le persone a Milano. Lo trovo notevole e sorprendente – sono molto felice che sia riuscita a realizzarlo.
Spiegaci il concetto che sta alla base del progetto. Come é iniziato il processo creativo dell’ultimo album?
L’idea dell’album mi è venuta in mente qualche tempo dopo che mi era stato diagnosticato il cancro. Volevo provare a raccontare la storia delle montagne russe emotive sulle quali ho vissuto per cinque anni fatti di controlli all’ospedale.
Quindi, subito dopo gli esami finali, ho iniziato a produrre la musica insieme ad un amico che ha un grande studio. Insieme a lui ho fatto tutta la parte dei sintetizzatori, successivamente mi sono trasferito nel mio studio, dove ho montato e mixato tutto.
Volevo avere nel progetto anche il pianoforte, il violino e il violoncello, così ho chiesto a due amici di unirsi e formare un quartetto. Tra l’altro uno dei due è italiano, Davide Rossi; ha composto e suonato le parti dei violini e violoncelli. Le parti per pianoforte sono composte e suonate da Jakob Littauer, un giovanissimo polistrumentista di Copenaghen, che studia al Royal Danish Conservatorium. Sono molto felice e fortunato di avere attorno a me questo tipo di amici, grandi musicisti di talento che volevano essere parte attiva del progetto.
Come musicista ce la metto tutta, ma, ad esempio, non suono bene il piano e non so suonare violino e violoncello. Volevo però questo tipo di tocco classico orchestrale nella musica, ecco perché il processo collaborativo era l’unico modo in cui potevo creare il paesaggio sonoro che desideravo.
Quindi sapevi già il risultato finale che avresti voluto ottenere? Conoscevi già l’atmosfera, i titoli, la sensazione che ogni traccia avrebbe dovuto trasmettere?
Sì, volevo che il pianoforte facesse parte del racconto e anche il violino narrasse una storia…
Quando ho parlato con Davide e Jakob riguardo la musica e l’album, ho dato loro delle indicazioni specifiche su ogni brano – quello che volevo far emergere, quello che per me era importante cercare di descrivere e tradurre in musica.
Mentre registravamo le loro parti, era già abbastanza chiaro cosa dovessero suonare, quale stato d’animo e atmosfera dovessero trasmettere.
Ogni brano, ogni composizione riflette un certo punto spazio-temporale, un momento o una condizione specifica. Fifty eleven, per esempio, è il numero del dipartimento dell’ospedale.
Dunque undici non ha nulla a che fare con gli undici brani contenuti nel disco…
No, è solo una coincidenza che ci siamo undici tracce nell’album. 5011 è il numero del dipartimento in cui sono andato ogni volta per avere consultazioni mediche. Dopo ogni esame, ogni TAC, ogni campione di sangue, devi aspettare una settimana prima del verdetto.
Come l’album si è poi trasformato in undici film e in una mostra audiovisiva?
Dopo che tutta la musica è stata scritta, ho mandato l’album al mio amico Justin Tyler Close a Los Angeles; lui è un regista, visual artist e fotografo. Ho parlato a lui dell’idea: un documentario di quindici minuti sul progetto dell’album, così da far capire alla gente di cosa si trattasse.
Lui dopo aver ascoltato l’album mi rispose dicendo: “Voglio davvero farlo, ma non penso debba essere un unico film. Penso che dovremmo creare un film per ogni brano. Uno per ogni composizione, quindi undici composizioni – undici film”.
Ok, è ambizioso – ho pensato. Nel senso del budget e tutto il resto, è una cosa abbastanza grande. Tuttora il suo progetto non è ancora finito, perché sta ancora lavorando al montaggio degli undici film in un unico cortometraggio.
Il breve film sarà disponibile online, perché dovrebbe avere una vita propria, come un cortometraggio d’arte.
Quindi gli undici film esisteranno solo come mostra, finché questa esisterà e si sposterà. Andrà a Los Angeles e forse in altri posti. Solo dopo, quando avrà terminato il tour, potremo mettere tutti gli undici film su the5011project.com.
I titoli e i sottotitoli di ogni composizione e video… sono quelli i sentimenti che hai provato e i pensieri che ti hanno attraversato nel periodo della malattia?
Sì, proprio come ho spiegato ai musicisti su cosa volevo esaltare in ogni composizione. Ho anche spiegato a Justin cosa significava per me ogni brano, cosa avrebbe dovuto riflettere e cosa rappresentare, poi lui ha sviluppato l’idea di questo personaggio – una specie di mio alter-ego, non interpretato da me, ma da un performer islandese – Kristjan Ingimarsson.
Lo si vede negli undici film attraversare un’esperienza simile, ma in un modo più metaforico, quindi diventa come un universo dei sogni, una documentazione di un uomo che sta vivendo un’esperienza traumatica che altera la vita.
Quando eri nelle condizioni di quell’uomo, l’uomo nei video… a cosa pensavi?
Quell’esperienza ti ha dato una spinta per fare qualcosa che stavi rimandando nella tua vita? Voglio dire, ti ha dato più consapevolezza?
Prima di tutto, volevo in qualche modo renderla creativamente importante.
Avevo bisogno di elaborare la mia esperienza in modo creativo e di documentarla, perché non sai mai cosa potrà accadere. Ora questo progetto può essere qualcosa che la mia famiglia può ascoltare e guardare, qualora non fossi più tra loro. Questo era un motivo.
Poi ho anche iniziato a prestare più attenzione a ciò che è veramente importante nella mia vita: la mia famiglia e ciò in cui investo il mio tempo. Non riguarda quello che possiedo, le cose materiali. Non credo di essere cambiato così tanto nella conduzione della mia vita, ma ora non passo il tempo su cose che non ritengo siano importanti. Forse prima ero più preoccupato per situazioni poco rilevanti. Adesso cerco solo di concentrarmi su quello che è significativo per me, nella mia vita, e sulla mia famiglia, soprattutto ora che io e la mia ragazza abbiano avuto un secondo bambino.
Abbiamo avuto il nostro primogenito mentre ero ancora sotto costanti controlli medici. Una composizione dell’album “Dur For Vitus” prende il nome da mio figlio Vitus.
Avere un figlio è stato quasi il primo impulso che ho avuto dopo la diagnosi di cancro. Penso che sia quasi un istinto animale, genetica; vuoi trasmettere i tuoi geni quando diventi consapevole della tua mortalità. Quindi quello è quel che è successo. Non aspettiamo, costruiamo una famiglia adesso – è stato il primo pensiero. Inoltre non sono poi più così giovane. Era il momento dunque. La mia ragazza lo è, lei avrebbe potuto aspettare, ma è stata d’accordo anche lei.
Perché hai optato per un quartetto, non un trio o un quintetto?
Io e il mio amico, Claus Norreen, ci siamo occupati dei sintetizzatori. Abbiamo fatto la base delle composizioni insieme. Quindi il quartetto siamo io, Claus, Jacob e Davide. In realtà c’è un quinto ragazzo in una traccia, il fratello di Jakob – Simon Littauer, ma poi Claus non era su quella traccia, quindi, siamo sempre quattro su ogni brano.
Ci sarebbe potuto essere qualcosa in più suppongo, ma, in qualche modo, il panorama sonoro era già completo. Sai, non volevo davvero ficcarci nient’altro. Ho pensato di inserire magari anche altri strumenti, ma mi sembra più chiaro quando è minimalista e con un numero limitato di strumenti, poche ”voci” che raccontano una storia.
Quando hai finito il progetto? Quanto tempo ci è voluto per mettere tutto insieme?
Penso di aver terminato la musica a maggio dell’anno scorso, dopo circa un anno di registrazioni… Poi ho dovuto aspettare fino a ottobre prima di rilasciarlo su Kompakt Records.
Durante la scorsa estate, tutti i film sono stati girati in Danimarca. Successivamente, nello stesso momento in cui è uscito l’album, c’è stata la mostra audiovisiva a Copenaghen.
Quindi si, il progetto potrebbe definirsi terminato, a parte il cortometraggio che il regista sta ancora montando e l’idea di portare questa mostra in giro per il mondo quest’anno.
Come ti fanno sentire la musica e le immagini ora, dopo aver vissuto tutto di persona? Che effetto hanno avuto su di te i film la prima volta che li hai guardati?
Sai che la cosa pazzesca è che non ho visto tutti gli undici film fino alla prima serata di inaugurazione della mostra a Copenaghen?!
I tecnici del montaggio e il regista ci stavano lavorando fino all’ultimo per finire tutto. Volevano che posticipassi la mostra di un mese, perché non si sentivano pronti.
Anche adesso, il regista sta ancora cambiando alcune cose in alcuni film. È stata una corsa sfrenata!
Tu stesso spettatore alla première?!
Eh sì. Ho visto solo alcuni dei video prima della premiere. Credo tre.
Quindi, quando li hai visti, come è stato?
Vederli, finalmente – è stata davvero un’esperienza straordinaria. Molto commovente.
Il cast e la troupe ne hanno passate di tutte per filmare questi undici video. Sono andati nella parte occidentale della Danimarca per girare durante una tempesta di sabbia in un posto che sembra un deserto. Alcuni film sono girati sulla piccola isola di Livø, anche lì in circostanze molto difficili.
Ci sono due film girati in un vecchio ospedale psichiatrico, uno dei quali con la ballerina statunitense – Bobbi Jene, lei è davvero incredibile.
Tutti i soggetti coinvolti hanno lavorato su questo progetto perché lo volevano, non per un guadagno economico. Si tratta di fare qualcosa di importante e che avrà un impatto su molte persone.
Questa è anche la forza trainante del regista, creare questo progetto per se stesso come artista visivo.
Sei consapevole dell’impatto che questa mostra e questo progetto hanno sulle persone?
A Copenaghen è stato piuttosto emozionante vedere la gente reagire a certe scene dei film, a certe parti della musica, sì…
Le persone escono per chiamare qualcuno, per sedersi in silenzio su una panchina, per fumare fissando il vuoto, incapaci di parlare per un po’…
Sì. È un’esperienza piuttosto intensa guardare e ascoltare tutti i film.
Soprattutto quello con la sala d’attesa, 5011, è uno dei video davanti al quale le persone si commuovono davvero perché la maggior parte delle persone entra in relazione con quel sentimento. Forse la madre o il padre sono stati malati, o sono stati malati loro stessi; il cancro è universale e può colpirci tutti.
Ho visto molte persone piangere a Copenaghen. Sono solo felice che questo lavoro faccia provare qualcosa e faccia riflettere le persone.
Molte persone, in situazioni analoghe, preferiscono non condividere con altri la loro condizione, preferiscono non mostrare quello che stanno passando, non credi? Tu hai fatto il contrario, ti sei esposto molto.
Sì. Anche questo fa parte dell’idea: abbattere ogni tabù e raccontare una storia molto personale sul cancro e tutti i sentimenti che derivano da quella diagnosi. Soprattutto l’ansia che ne deriva. Quella è ciò che mi ha veramente colpito, più della malattia in sé.
Il bambino che vediamo nel video è una parte di te. Tu da piccolo cosa sognavi di diventare da grande?
Questa la so! Ho preso parte a un questionario quando avevo solo sei o sette anni. Una domanda era: “Cosa vuoi essere da grande?”, io ho risposto pompiere o architetto. Il mio unico desiderio ancora oggi, se mai avessi dovuto fare qualcosa di diverso dalla musica, sarebbe stato studiare architettura. Mi sarebbe piaciuto.
L’architettura mi ha fatto ricordare che ho visto alcuni scatti della vostra casa online, in un’intervista che tu e la tua ragazza avete rilasciato alcuni anni fa. Ho notato che siete piuttosto appassionati di design e arte…
Sì. La mia ragazza è una light designer e io colleziono arte e arredamento contemporaneo.
Tra l’altro la copertina dell’album è un’opera realizzata da un pittore statunitense – Landon Metz. Colleziono sue opere da tempo, ho seguito la sua carriera e alla fine gli ho fatto sentire l’album; gli ho chiesto se sarebbe stato disposto a dipingere un’opera per il progetto. Fortunatamente, ha detto di sì! Così ha prodotto un’opera appositamente per quella musica, l’ha dipinta mentre ascoltava le composizioni nel suo studio. Lo trovo incredibile.
Hai avuto un’equipe fantastica! Con tutti questi artisti internazionali…
Totalmente. Sì, è un progetto abbastanza multimediale.
Non è la tua prima volta qui a Milano. Sei stato in grado di esplorare la città? C’è qualcosa che ti ha colpito?
Ci sono molti posti fantastici a Milano.
Adoro i vini naturali con un basso intervento e senza l’utilizzo di prodotti chimici. Ho chiesto raccomandazioni a un amico, mi ha suggerito Rovello 18 – mi è piaciuto molto. Cibo e vino incredibili. Sono stato all’Osteria del Giardinetto – vecchia scuola, con due fratelli che gestiscono questo posto da molti anni. Super bello.
Quindi si, ecco, il cibo e il vino prima di tutto.
Poi sono andato a vedere il Duomo. La cosa pazzesca è che ho fatto il giro tutto intorno e non sono riuscito a trovare dove comprare il biglietto per salire su… Quindi me la sono goduta da fuori ed è stato bello lo stesso.
Quali sono i tuoi piani e progetti per quest’anno?
Pian piano sto iniziando a lavorare su un nuovo progetto. Per ora è solo nella mia mente, ma sto cercando di capire come svilupparlo.
È decisamente difficile per me tornare a fare quello che facevo: musica orientata ai club. Diciamo che ho iniziato un nuovo capitolo della mia carriera e mi sembra strano tornare al “tunz-tunz-tunz“, sai? Lo faccio ancora per dei remix o EP, ce n’è uno che uscirà ad aprile, appena fatto con un amico islandese, ci chiamiamo The Mansisters, quello è sicuramente un pezzo da festa. Un mio progetto parallelo davvero divertente.
Ma se voglio continuare a pubblicare album ed essere fedele a me stesso e all’arte che faccio, allora non penso di poter tornare a fare solo musica che non ha alcuna sorta di messaggio. Se le cose vanno bene, penso che l’anno prossimo, 2020, pubblicherò un nuovo album. Speriamo.
Per deviazione personale o per il peso eccessivo di troppe emozioni e pensieri da elaborare, non ho potuto comportarmi altrimenti che fare una digressione virando verso altri argomenti stimolanti.
Ed ecco – un esclusivo vademecum stilato dallo stesso Kasper Bjørke. Una cartolina e breve guida della sua Copenaghen.
Senti, ci dai qualche consiglio, da insider, dei suggerimenti su cosa fare, cosa vedere a Copenaghen?
Certo, ne ho un po’…
▪︎Nr.30 – un locale con vino naturale e piccoli gustosi piatti, gestito da due adorabili ragazzi.
▪︎Ancestrale – un altro ottimo posto con tapas e vino naturale, aperto dalle 16:00 con una buona degustazione ogni giorno.
▪︎Atelier September – a Gothersgade, in centro, un piccolo locale che offre una buonissima colazione, ma ottimo anche per un pranzo o un caffè.
▪︎Apollo bar – all’interno del cortile di Charlottenborg Kunsthal a Nyhavn. Stesso proprietario di Atelier September. Ottimo cibo e vini, e nei fine settimana si anima grazie ai Djs.
▪︎Manfreds – a Nørrebro, piccoli piatti da condividere e una selezione di vini naturali davvero bella – la loro tartare è leggendaria. Tutto organico. Da optare per il menu completo con anche il vino, e chiedete assolutamente la tartare.
▪︎La banchina – posto incredibile per bere vino e fare un tuffo nell’oceano in estate o un salto in sauna d’inverno, è gratis. Il piatto del giorno, spesso di pesce, è sempre buono. È a venti minuti di bici oltre Christiania. Si può prendere il traghetto e ammirare Copenaghen dal mare.
▪︎Pompette – un nuovo lo-fi wine bar con una vasta scelta e prezzi molto buoni rispetto al resto di Copenaghen.
▪︎Prolog Coffee Bar – il miglior caffè di Vesterbro.
▪︎Andersen & Maillard – per i migliori croissant e caffè di Nørrebro.
▪︎Louisiana Museum of Modern Art – a quaranta minuti di treno da Copenaghen, ma vale il viaggio.
▪︎V1 Gallery e Eighteen Gallery – due gallerie nel meatpacking district, quartiere dell’ex mattatoio.
▪︎Etage Projects – una bella galleria di oggetti di design e interni in centro.
▪︎Jolene Bar – movimentato, il mio bar preferito in città. Ottimo sistema audio e, spesso, grandi Djs. Suono lì qualche volta all’anno.
Credits:
Courtesy Kasper Bjørke
Photo credits (portrait): Dennis Morton
Photo credits (Milan exhibition): Jusher Avain
Video credits: Justin Tyler Close
Anastasia B. Calmotti